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Tassare i super-ricchi è quasi impossibile: ecco dove nascondono i loro patrimoni

Tassare i ricchi è così difficile perché gran parte della loro ricchezza è nascosta tra paradisi fiscali, società opache e beni non registrati. Ecco perché.

Ogni volta che si parla di tasse, la questione riemerge puntuale: perché chi lavora paga fino al 43% di Irpef, mentre chi possiede immense ricchezze spesso riesce a eluderle? Tassare chi ha davvero tanto – immobili di lusso, partecipazioni aziendali, collezioni d’arte e capitali offshore – è uno dei nodi irrisolti di qualsiasi tentativo di riforma fiscale equa. Ma il vero ostacolo non è politico: è tecnico e strutturale.

Non tutto il patrimonio è “visibile”

Il primo problema è definire cosa sia effettivamente “ricchezza”. Le case, le auto e gli immobili risultano nei registri pubblici. Lo Stato sa chi li possiede, quanto valgono (più o meno) e può tassarli. Ma per chi ha davvero grandi patrimoni, quelli visibili sono solo una parte – spesso la meno significativa.

Il grosso è fatto di beni non registrati:

  • quadri e gioielli custoditi in caveau privati;
  • partecipazioni societarie in aziende con sede nei paradisi fiscali;
  • conti correnti esteri;
  • e perfino panfili e ville intestati a società con azioni al portatore.

In questi casi, risalire al reale proprietario è quasi impossibile. Anche volendo tassare questi beni, non si sa a chi appartengano davvero.

Il paradosso: la patrimoniale colpisce i “ricchi visibili”

Ogni tanto si parla di una tassa patrimoniale per ridurre le disuguaglianze. Ma se non si riesce a intercettare la ricchezza nascosta, il rischio concreto è quello di tassare soltanto il ceto medio o i “ricchi nominali” – quelli che possiedono uno o due appartamenti in Italia e che, paradossalmente, sono più facilmente individuabili dal Fisco.

I “veri ricchi” – quelli che gestiscono decine di milioni di euro – hanno i mezzi per proteggere i loro beni:

  • aprono società nei Caraibi o a Singapore;
  • utilizzano fiduciari e prestanome;
  • frammentano il patrimonio tra più giurisdizioni per sfuggire a controlli incrociati.

In pratica, ogni misura ordinaria si scontra con una cortina legale (e legittima) che impedisce qualunque tentativo di tassazione effettiva.

Un esempio classico? Il megayacht intestato a una società offshore con azioni al portatore. Nessuno – nemmeno le autorità locali – è in grado di dire con certezza chi ne sia il proprietario reale. I documenti parlano chiaro: la società è formalmente gestita da un fiduciario, spesso un prestanome. Il vero dominus? Invisibile. Anche volendo tassare quel bene, non si sa a chi inviare l’avviso di pagamento.

Soluzioni possibili (ma globali)

Cosa si può fare per rendere più giusto il sistema? Alcuni esperti, come il professore di diritto tributario Tommaso Di Tanno, propongono alcune modifiche concrete:

  • riformare l’imposta di successione rendendola progressiva e più incisiva (in Italia vale appena 1 miliardo l’anno, contro i 21 miliardi della Francia);
  • tracciare la titolarità effettiva delle società estere, attraverso accordi internazionali, ad esempio in sede OCSE;
  • rafforzare i controlli su donazioni, trust e trasferimenti di ricchezza che oggi sfuggono a ogni tassazione.

Ma soprattutto, serve un cambio di paradigma: non si può tassare ciò che non si vede. Finché le grandi ricchezze resteranno opache, ogni tentativo di riequilibrio fiscale sarà destinato a colpire i soliti noti: chi lavora, chi ha casa, chi non ha nulla da nascondere.